So. Quindi. Vi ho già detto che sono tornata e che ne sono molto felice, ora però devo rimettermi in pari con le pubblicazioni e con le rubriche! Accidenti che faticaccia e devo ancora terminare di scrivere la mia recensione di "Lacrime di Cera" di Liliana Marchesi. Ce la farò non preoccupatevi!!!Comunque andiamo con calma e oggi inizio con il pubblicare la rubrica settimana del sabato, Assaggi di lettura. Per questo settimo appuntamento ho deciso di postarvi il primo capitolo di un romanzo che sicuramente inizierò a leggere stasera, o dopo aver terminato la stesura del post, "L'estate nei tuoi occhi" di Jenny Han. Ho comprato questo volume prima di partire, lasciandolo appoggiato sul comodino a prendere polvere per troppo tempo. Penso proprio che sia arrivato il momento di aprirlo. Voi che dite?

L'estate nei tuoi occhi
Jenny Han
Piemme
N. pagine 306
Belly misura il tempo in estati. Tutto ciò che di bello e magico è successo nella sua vita, è successo fra giugno e agosto. L'inverno è solo il periodo che la divide dalla prossima estate, dalla casa sulla spiaggia e da Susannah che, oltre a essere la migliore amica di sua mamma, è anche la madre di Jeremiah e Conrad. Loro sono gli amici con i quali è cresciuta: uno è il ragazzo su cui contare, l'altro è quello che ti fa battere il cuore. Questa estate però sarà un'estate speciale, perché sta per accadere quello che Belly sogna da sempre, e che sembrava non sarebbe mai accaduto...
BREVE ESTRATTO
«Non riesco a credere che tu sia qua.» Timidamente, dice: «Neppure io». E poi esita: «Sei ancora convinta di voler venire con me?». Non riesco a credere che debba chiedermelo. Io, con lui, andrei ovunque. «Sì» gli rispondo. Ho l’impressione che non esista altro all’infuori di quella parola, di quell’attimo. Ci siamo soltanto noi. Tutto ciò che è successo in quest’estate, e nelle estati precedenti, ci ha portati fino a qua. A ora.
Capitolo 1
Eravamo in viaggio da settemila anni. O, per lo meno, era quella l’impressione che avevo. Mio fratello, Steven, guidava più piano della nonna. Ero seduta di fianco a lui, sul sedile del passeggero, con i piedi sul cruscotto. Nel frattempo, mia madre era crollata sul sedile posteriore. Nonostante dormisse, pareva vigile, come se da un momento all’altro avesse potuto svegliarsi e dirigere il traffico. «Accelera» dissi a Steven, dandogli una gomitata sul braccio. «Sorpassiamo quel ragazzino in bici.» Steven mi allontanò con un’alzata di spalle. «Mai disturbare il conducente» mi disse. «E togli quei piedi luridi dal mio cruscotto.» Mossi le dita. A me parevano piuttosto puliti. «Il cruscotto non è tuo. Presto questa macchina passerà a me, lo sai.» «Se mai riuscirai a prendere la patente» scherzò lui. «Le persone come te non dovrebbero avere il permesso di guidare.» «Ehi, guarda» dissi, indicando fuori dal finestrino. «Quel tizio sulla sedia a rotelle ci ha appena sorpassato!» Steven mi ignorò, perciò iniziai ad armeggiare con la radio. Una delle cose che più mi piacevano delle vacanze erano le stazioni radiofoniche. Le conoscevo quanto quelle di casa, e quando ascoltavo Q94 sapevo di essere là, al mare. Trovai la mia stazione preferita, quella che trasmetteva di tutto, dalla musica pop, ai vecchi successi, all’hip-hop. Tom Petty stava cantando Free Fallin’. Cantai con lui. «She’s a good girl, crazy ’bout Elvis. Loves horses and her boyfriend too.» Steven allungò la mano per cambiare stazione e io gliela respinsi con una pacca. «Belly,» disse «la tua voce mi fa venire voglia di schiantarmi contro un albero.» Finse di sbandare a destra. Cantai a voce ancora più alta, svegliando mia madre, che si mise pure lei a cantare. Avevamo entrambe delle voci terribili e Steven scosse la testa con fare disgustato. Odiava trovarsi in minoranza. Era questo a scocciargli di più riguardo al divorzio dei nostri genitori: essere l’unico maschio, senza papà che prendesse le sue parti. Attraversammo la città lentamente, e nonostante avessi appena preso in giro Steven per questo, non mi dispiacque affatto. In quel momento, adorai la sua guida. Rivedere la città, il chiosco Il Granchio di Jimmy, il minigolf, tutti i negozi di surf. Fu come tornare a casa dopo essere stata lontana per un lungo, lunghissimo tempo. Avevo davanti un milione di aspettative per l’estate e per ciò che sarebbe potuto accadere.Man mano che ci avvicinavamo alla casa, il cuore prese come al solito a battermi forte in petto. C’eravamo quasi. Abbassai il finestrino e m’immersi nell’atmosfera. L’aria aveva lo stesso sapore, lo stesso odore. Il vento che mi appiccicava i capelli, la salata brezza marina. Era tutto perfetto, quasi stesse aspettando il mio arrivo. Steven mi diede di gomito. «Stai pensando a Conrad?» mi domandò in tono beffardo. Una volta tanto la risposta era no. «No» dissi bruscamente. La mamma infilò la testa tra i due sedili anteriori. «Belly, ti piace ancora Conrad? Da quello che avevo visto l’estate scorsa, credevo ci fosse qualcosa tra te e Jeremiah.» «Che cosa?! Tu e Jeremiah?» Steven parve nauseato. «Cosa è successo tra te e Jeremiah?» «Niente» risposi a entrambi. Sentii il rossore salirmi dal petto. Desiderai essere già abbronzata, per poterlo nascondere. «Mamma, il fatto che due persone siano buone amiche non vuol dire che tra loro ci sia qualcosa. Per favore, non tirare più in ballo questo discorso.» Mia madre tornò ad appoggiarsi al sedile posteriore. «D’accordo» disse. Nella sua voce c’era una nota perentoria che Steven non sarebbe riuscito a spezzare. Ma siccome era Steven, ci provò lo stesso. «Cosa è successo tra te e Jeremiah? Non puoi dire una cosa di questo genere e non dare spiegazioni.» «Piantala» gli dissi. Raccontargli qualcosa gli avrebbe soltanto dato argomenti per prendermi in giro. E a ogni modo, non c’era niente da raccontare. Proprio niente. Conrad e Jeremiah erano i ragazzi di Beck. Beck era Susannah Fisher, da nubile Susannah Beck. Mia madre era l’unica a chiamarla Beck. Si conoscevano da quando avevano nove anni. Dicevano di essere sorelle. E avevano cicatrici a provarlo: segni identici sui polsi, a forma di cuore. Susannah mi raccontò che quando nacqui capì che ero predestinata a uno dei suoi ragazzi. Secondo lei, era scritto nelle stelle. Mia madre, che solitamente non si appassionava a quel genere di cose, rispose che sarebbe stato perfetto, a patto che prima di sistemarmi avessi avuto per lo meno qualche altra storia d’amore. In realtà, disse «qualche altro innamorato» ma quell’espressione mi mise i brividi. Susannah mi mise le mani sulle guance e concluse: «Belly, ti do la mia benedizione. Non sopporterei che fosse un’altra a portarmi via i ragazzi». Andavamo alla casa al mare di Susannah a Cousins Beach ogni estate fin da quando ero piccola, addirittura prima che nascessi. Per me, Cousins Beach non era tanto la città, quanto piuttosto la casa. La casa era il mio mondo. Avevamo il nostro tratto di spiaggia, tutto per noi. La casa estiva era fatta di molte cose. Il porticato che attraversavamo di corsa, le caraffe di tè freddo, i bagni serali in piscina, ma soprattutto... i ragazzi. Mi ero sempre domandata che aspetto avessero i ragazzi a dicembre. Provavo a immaginarmeli avvolti in sciarpe pesanti e maglioni a collo alto, con le guance arrossate, di fianco a un albero di Natale, ma l’immagine appariva sempre finta. Non conoscevo il Jeremiah invernale o il Conrad invernale, ed ero invidiosa di chiunque, al contrario mio, sapesse com’erano. Io li vedevo con le infradito, i nasi scottati, i costumi da surf e la sabbia. Ma se pensavo alle ragazze del New England con cui giocavano a palle di neve nei boschi... Quelle che si rannicchiavano contro di loro in attesa che l’auto si riscaldasse, quelle a cui prestavano il cappotto quando fuori faceva freddo. Be’, Jeremiah, forse. Non Conrad. Conrad non lo avrebbe mai fatto; non era nel suo stile. A ogni modo, non mi sembrava giusto. Durante l’ora di storia restavo seduta accanto al termosifone a domandarmi che cosa stessero facendo, se anche loro, da qualche parte, si stavano riscaldando i piedi. E contavo i giorni che mancavano all’estate. Per me, l’inverno non contava quasi. Era l’estate ad avere importanza. Tutta la mia vita era misurata in estati. Era come se iniziassi a vivere da giugno, arrivando su quella spiaggia, in quella casa. Conrad era il più grande, di un anno e mezzo. Era scuro, scurissimo. Totalmente irraggiungibile, inaccessibile. Aveva una bocca dal sorriso compiaciuto, che mi ritrovavo sempre a fissare. Una di quelle bocche che ti fanno venire voglia di baciarle, lisciarle, per cancellare quel compiacimento. O forse non si desidera cancellarlo... ma controllarlo in qualche modo. Renderlo proprio. Era esattamente ciò che desideravo fare con Conrad. Renderlo mio. Jeremiah, invece... era mio amico. Era carino con me, il genere di ragazzo che abbracciava ancora la madre, che voleva ancora tenerle la mano anche se, tecnicamente, era troppo grande per farlo. Non era neppure imbarazzato. Jeremiah Fisher era troppo impegnato a divertirsi per trovare il tempo di provare imbarazzo. Scommettevo che Jeremiah avesse più amici di Conrad a scuola. Scommettevo che alle ragazze piacesse di più. Scommettevo che se non fosse stato per il football, Conrad non sarebbe stato niente di che. Sarebbe stato il tranquillo, lunatico Conrad, non un dio del football. E la cosa mi piaceva. Mi piaceva che Conrad preferisse starsene da solo, a suonare la chitarra. Come se fosse superiore a tutte quelle stupidaggini scolastiche. Mi piaceva pensare che se Conrad avesse frequentato la mia scuola, non avrebbe giocato a football, sarebbe stato sulla rivista letteraria e avrebbe notato una come me.
Quando finalmente ci fermammo con l’auto davanti casa, Jeremiah e Conrad erano seduti sotto al portico. Io mi sporsi verso Steven e suonai due volte il clacson, cosa che nel nostro linguaggio estivo significava: “Venite ad aiutarci con le borse, subito”. Conrad adesso aveva diciott’anni. Era passato da poco il suo compleanno. Incredibilmente, era più alto rispetto all’estate precedente. Aveva i capelli tagliati corti e più scuri che mai. Al contrario di quelli di Jeremiah, che si erano allungati, facendolo sembrare un tantino irsuto ma in senso buono, come un tennista degli anni Settanta. Quando era più piccolo, aveva dei riccioluti capelli biondi, d’estate quasi color platino. Jeremiah odiava i suoi riccioli. Per un po’, Conrad lo aveva convinto che fossero le croste dei sandwich a far venire i riccioli, così Jeremiah aveva smesso di mangiarle, lasciando che fosse Conrad a farlo. Crescendo, però, i capelli di Jeremiah si erano fatti sempre meno ricci e più ondulati. Mi mancavano, i suoi riccioli. Susannah lo chiamava «il suo angioletto», e in effetti, un tempo, lo sembrava, con le sue guance rosa e i riccioli. Le guance rosee le aveva ancora. Jeremiah portò le mani alla bocca e gridò: «Steve!». Io restai seduta in macchina a osservare Steven che si avvicinava a loro a passo lento e li abbracciava alla maniera dei maschi. L’aria aveva odore di sale e umidità, come se da un momento all’altro potesse piovere acqua di mare. Finsi di essere impegnata ad allacciarmi le scarpe, ma in realtà desideravo soltanto avere un attimo per guardare i ragazzi e la casa, in privato. La casa era grande, grigia e bianca, ed era più o meno come tutte le altre case lungo la via, ma migliore. Era esattamente come credevo dovesse essere una casa al mare. Accogliente. A quel punto scese di macchina anche mia madre. «Ehi, ragazzi. Dov’è vostra madre?» disse a gran voce. «Ciao, Laurel. Mamma sta facendo un sonnellino» rispose Jeremiah. Di solito, Beck si precipitava fuori di casa nell’istante stesso in cui parcheggiavamo. Mia madre li raggiunse a grandi passi e li abbracciò entrambi, forte. L’abbraccio di mia madre era energico e saldo quanto la sua stretta di mano. Poi scomparve in casa con gli occhiali da sole sulla testa. Io uscii dalla macchina e mi misi la borsa a tracolla. In un primo momento, i ragazzi non mi videro neppure arrivare. Dopo, però, se ne accorsero. Eccome. Conrad mi lanciò una rapida occhiata, di quelle che lanciano i ragazzi quando sono a passeggio. Non mi aveva mai guardata così in tutta la mia vita. Mai. Sentii salire di nuovo il rossore che avevo provato in macchina. Jeremiah, dal canto suo, reagì a scoppio ritardato. Mi guardò come se non mi avesse neppure riconosciuta. Tutto ciò accadde nel giro di circa tre secondi, ma mi parve un’eternità. Conrad mi abbracciò per primo, ma in un modo distante, attento a non avvicinarsi troppo. Siccome aveva da poco tagliato i capelli, la pelle attorno alla nuca era rosa e fresca, come quella di un neonato. Profumava d’oceano. Profumava di Conrad. «Mi piacevi di più con gli occhiali» mi disse, avvicinando le labbra all’orecchio. Mi punse nel vivo. Lo respinsi e dissi: «Be’, pazienza. Non ho alcuna intenzione di togliermi le lenti a contatto». Mi sorrise, e il suo sorriso fu... semplicemente penetrante. Succedeva ogni volta. «Credo che te ne siano spuntate altre» continuò, picchiettandomi sul naso. Sapeva quanto mi mettessero a disagio le lentiggini e nonostante questo ogni volta mi prendeva in giro. Poi fu Jeremiah a stringermi, sollevandomi quasi da terra. «La piccola Belly è cresciuta» esultò. Risi. «Mettimi giù» gli ordinai. «Puzzi di sudore.» Jeremiah rise forte. «Sei sempre la stessa» rispose, ma mi fissava come se non ne fosse sicuro. Piegò la testa da un lato e disse: «Eppure c’è qualcosa di diverso, in te, Belly». Mi preparai a ricevere una frecciata. «Che cosa? Ho le lenti a contatto.» Neppure io ero ancora abituata a vedermi senza occhiali. La mia migliore amica, Taylor, aveva cercato di convincermi a usare le lenti fin dalla prima media, e alla fine le avevo dato ascolto. Sorrise. «Non è quello. Sei diversa, tutto qua.» Allora tornai alla macchina e i ragazzi mi seguirono. Scaricammo di fretta l’auto e, non appena finimmo, presi la mia valigia e lo zaino, e andai direttamente nella mia vecchia camera da letto. La mia stanza era quella di Susannah quando era bambina. Aveva una sbiadita carta da parati e della mobilia bianca. C’era un carillon che amavo. Quando lo aprivi, c’era una ballerina che danzava al ritmo della colonna sonora di Romeo e Giulietta, nella versione cinematografica degli anni Sessanta. Là tenevo i miei gioielli. Nella mia stanza, tutto era vecchio e sbiadito, ma mi piaceva. Avevo l’impressione che le pareti, il letto a baldacchino, e soprattutto quel carillon, potessero nascondere dei segreti. Rivedere Conrad, essere guardata in quel modo da lui, mi aveva lasciato senza fiato. Afferrai l’orso bianco di peluche sul cassettone e lo strinsi forte al petto. Si chiamava Junior Mint, abbreviato in Junior. Mi sedetti con Junior sul letto. Il cuore mi batteva talmente forte che riuscivo a sentirne il rumore. Tutto era come sempre, eppure non lo era. Mi avevano guardata come se fossi una ragazza vera e non semplicemente la sorellina di un amico.
Che ne pensate?
Qualcuno
di voi ha letto il romanzo? Me lo consigliate?
il l'ho appena comprato, non vedo l'ora di leggerlooo... però si avvicinano gli esami e sara un pò difficile ma la trama mi piace troppo.. XD
RispondiEliminaLeggerò con piacere la tua recensione sul libro quando lo avrai finito, come sempre :) In bocca al lupo per gli esami.
EliminaUn bacio