Buongiorno a tutti, scusate se pubblico solo di mattina o pomeriggio, ma ho una chiavetta internet che devo condividere con mia mamma, quindi quando torna dal lavoro devo cedergliela :(
Questo sabato pubblico la mia ultima rubrica settimanale, Assaggi di lettura. Creata apposta per i lettori; per permette a tutti coloro che passano dal mio blog di farsi un'idea su un certo romanzo, leggendo l'incipit o il primo capitolo.
Come primo appuntamento ho deciso di inserire un romanzo che da un po' mi affascina e vorrei leggere, sebbene alcuni non ne parlano bene. Il volume si intitola Across the universe di Beth Revis pubblicato da Piemme il 9 Ottobre 2012.
Autore: Revis Beth
Editore: Piemme
Amy è una passeggera ibernata sulla navicella spaziale Godspeed. Ha lasciato il suo ragazzo e gli amici sulla Terra ed è partita con i genitori: si risveglieranno dopo trecento anni su un nuovo pianeta da colonizzare, Centauri. Ma qualcosa è andato storto: qualcuno ha cercato di ucciderla, risvegliandola dal suo sonno protetto. E così Amy si ritrova a dover passare senza la sua famiglia ancora cinquant'anni sull'enorme navicella spaziale, in balia di sconosciuti tra cui si nasconde un assassino che vuole scongelare tutti gli scienziati a bordo, compresi i suoi genitori. L'unico che sembra dalla sua parte è Elder, un ragazzo che presto diventerà il capo della navicella spaziale, e che per quanto sia potentemente attratto dalla sua singolare bellezza, cerca di proteggerla dal resto della comunità e dallo strapotere di Eldest, il capo. Ma Amy può davvero fidarsi di Elder? E quello che prova per lui la aiuterà, o sarà solo un ostacolo alla sua sopravvivenza sulla Godspeed?
BREVE ESTRATTO:
«Lascia andare mamma per prima» disse papà.
Mamma invece voleva mandare avanti me. Credo temesse che, non appena fossero
stati ibernati, io me ne sarei andata, sarei tornata alla mia vita invece di farmi relegare
in quella fredda cassa trasparente. Ma papà insistette.
«Amy deve vedere com’è. Vai tu per prima e lascia che guardi. Poi andrà lei e io le starò
accanto. Sarò io l’ultimo.»
Il succo del discorso comunque era che per venire ibernati bisognava essere nudi e
nessuno dei due voleva farsi vedere nudo da me (non che io facessi i salti di gioia
all’idea di vederli in tutta la loro gloria, che schifo!) ma, potendo scegliere, era meglio
che andasse mamma per prima, dato che abbiamo le stesse parti del corpo eccetera
eccetera.
Mamma era tutta pelle e ossa, senza vestiti. Le sue clavicole erano più sporgenti che
mai; la pelle aveva quell’aspetto secco, da carta di riso, che ha la pelle dei vecchi. La
pancia, una parte che teneva sempre ben nascosta sotto gli abiti, era incavata e aveva
tante piccole rughe flosce che la facevano sembrare ancora più debole e vulnerabile.
Gli uomini che lavoravano nel laboratorio non sembravano affatto interessati alla
nudità di mamma ed erano altrettanto indifferenti alla presenza mia e di mio padre.
La aiutarono a sdraiarsi nella cassa criogenica. Il contenitore trasparente ricordava
tanto una bara, solo che le bare hanno i cuscini e sono molto più comode. Questa
sembrava più una scatola per le scarpe.
«Fa freddo» disse mamma. La sua pelle pallida premeva contro il fondo della cassa.
«Tra poco non lo sentirà più» borbottò uno dei tecnici. Sulla targhetta che portava sul
camice c’era scritto Ed.
Distolsi lo sguardo quando l’altro tecnico, Hassan, infilò gli aghi da endovenosa nella
pelle di mamma, uno sul braccio sinistro all’interno del gomito, un altro nella mano
destra in quella grossa vena che aveva tra le nocche.
«Si rilassi» disse Ed. Era un ordine, non un cortese suggerimento.
Mamma si morse il labbro.
La sostanza nella sacca dell’endovenosa non scendeva fluida come l’acqua, ma colava
lentamente come miele, tanto che Hassan dovette strizzare la sacca per farla passare
più in fretta nei tubi. Era color azzurro cielo, come i fiordalisi che Jason mi aveva
regalato per il ballo scolastico.
Mamma emise un sibilo di dolore. Ed tolse la pinza di plastica gialla che bloccava il
tubo dell’endovenosa nell’incavo del gomito e un fiotto di sangue rosso vivo schizzò al
suo interno, riversandosi nella sacca vuota. Gli occhi di mamma si velarono di
lacrime. L’altra sacca luccicava di gelatina azzurra; sembrava che una piccola scintilla
di cielo brillasse nelle vene di mamma.
«Dobbiamo aspettare che arrivi al cuore» disse Ed, lanciandoci un’occhiata. Papà serrò
i pugni, gli occhi fissi su mamma. Lei li teneva chiusi, stretti stretti, con due grosse
lacrime che le dondolavano dalle ciglia.
Hassan strizzò di nuovo la sacca di gelatina azzurra. Un rivolo di sangue sgocciolò
dalla bocca di mamma nel punto in cui si stava mordendo il labbro.
«È grazie a questa roba azzurra che iberniamo la gente senza problemi.» Ed parlava in
tono colloquiale, come un panettiere che spiega come il lievito fa crescere il pane.
«Senza di essa nelle cellule si formerebbero dei piccoli cristalli di ghiaccio e le pareti
cellulari si romperebbero. Questa roba invece rende le pareti cellulari più forti. Così il
ghiaccio non le rompe.» Guardò verso mamma. «Ma fa un male cane quando ti entra
dentro.»
Mamma era bianca come un cencio e giaceva nella cassa completamente immobile,
come se muovendosi potesse infrangersi in mille pezzi. Sembrava già morta.
«Volevo che tu vedessi tutto questo» sussurrò papà. Non mi guardò: stava ancora
fissando mamma. Non batté neppure ciglio.
«Perché?»
«Così ora sai cosa ti aspetta.»
Hassan continuava a spremere la sacca. Gli occhi di mamma si rovesciarono per
qualche istante e pensai che fosse svenuta, ma non era così.
«Ci siamo quasi» disse Ed, guardando la sacca col sangue di mamma. Il flusso si era
rallentato.
L’unico suono nella stanza era il respiro pesante di Hassan che schiacciava i lati della
sacca di gelatina azzurra. E un gemito, debole come quello di un gattino morente, che
proveniva da mamma.
Un fioco bagliore azzurro brillò nel tubo collegato al gomito di mamma.
«Okay, fermati ora» disse Ed. «Ce l’ha tutto nel sangue.»
Hassan tirò fuori l’ago. Mamma si lasciò sfuggire un lamento spezzato.
Papà mi tirò più avanti. Guardare dentro la cassa mi ricordò quando avevo guardato la
nonna nella sua bara l’anno prima in chiesa, il giorno in cui l’avevamo salutata per
l’ultima volta e mamma aveva detto che era in un posto migliore, ma in realtà voleva
solo dire che era morta.
«Com’è?» domandai.
«Non male» mentì lei. Almeno poteva ancora parlare.
«Posso toccarla?» chiesi a Ed. Lui scrollò le spalle, così allungai la mano e le strinsi le
dita della mano sinistra. Erano già fredde come il ghiaccio. Lei non ricambiò la stretta.
«Possiamo andare avanti?» domandò Ed, scuotendo un grosso contagocce che aveva
in mano.
Io e papà indietreggiammo, ma non tanto che mamma potesse pensare che l’avevamo
lasciata da sola in quella gelida bara. Ed le aprì gli occhi. Aveva dita grosse e callose
che sembravano ruvidi ciocchi di legno contro le palpebre sottili di mamma. Una
goccia di liquido giallo cadde in ciascun occhio verde. Ed fu sbrigativo, plin plin, poi
praticamente le chiuse gli occhi a forza.
Lei non li riaprì.
Dovevo avere una faccia stravolta, perché quando Ed mi guardò interruppe per un
istante la sua routine per rivolgermi un sorriso di conforto. «Le impediscono di
diventare cieca» spiegò.
«Va tutto bene» disse mamma dalla sua gelida scatola per le scarpe. Anche se aveva gli
occhi chiusi, sentii le lacrime nella sua voce.
«I tubi» disse Ed, e Hassan gli passò tre tubi di plastica trasparente. «Allora, senta.» Ed
si chinò sul viso di mamma. «Ora le metterò questi tubi giù per la gola. Non sarà
piacevole. Cerchi di fare come se dovesse inghiottirli.»
Mamma annuì e aprì la bocca. Ed le ficcò i tubi in gola. Mamma ebbe un conato di
vomito, un movimento violento che le partì dalla pancia e si fece strada fino alle
labbra secche e screpolate.
Guardai verso papà. Aveva un’espressione fredda e dura.
Passò molto tempo prima che mamma tornasse immobile e silenziosa. Continuò a
tentare di inghiottire finché i muscoli del suo collo non si adattarono ai tubi. Ed infilò
l’altra estremità di ciascun tubo in un buco nella parte superiore della bara, vicino alla
testa di mamma. Poi Hassan aprì un cassetto e tirò fuori un mucchio di fili elettrici
tutti intrecciati. Ficcò una matassa di fili colorati all’interno del primo tubo, un lungo
cavo nero con una scatoletta a un’estremità nel secondo e alla fine un rettangolino di
plastica nera che sembrava un pannello solare connesso a un cavo a fibra ottica
nell’ultimo. Poi collegò tutti i fili a una scatolina bianca che Ed fissò sopra il buco in
cima a quella che – mi resi conto in quel momento – alla fin fine non era altro che
un’elaborata cassa di imballaggio.
«Salutala adesso.» Alzai lo sguardo, sorpresa dalla gentilezza di quella voce. Ed,
impegnato a immettere qualcosa nel computer, ci voltava le spalle: aveva parlato
Hassan. Mi fece un cenno d’incoraggiamento con la testa.
Papà dovette tirarmi per un braccio per farmi avvicinare a mamma. Non era... non era
quella l’ultima immagine di lei che volevo. Gli occhi incrostati di giallo, tubi pieni di
fili ficcati in gola, un liquido azzurro che le scorreva nelle vene. Papà la baciò e
mamma abbozzò un sorriso intorno ai tubi. Le toccai una spalla. Era gelida. Lei mi
gorgogliò qualcosa e io mi chinai su di lei. Tre suoni, tre grugniti in realtà. Le strinsi il
braccio. Sapevo che quello che stava tentando di dirmi era: «Ti voglio bene».
«Mammina» sussurrai, accarezzandole la pelle sottile come carta. Era da quando
avevo sette anni che non la chiamavo più così.
«Va bene, è ora» disse Ed. Papà mi posò la mano sul braccio e cercò di tirarmi via con
delicatezza. Io mi liberai con uno strattone. Lui allora cambiò tattica e mi prese per
una spalla, facendomi voltare verso il suo petto duro e muscoloso e abbracciandomi
stretta, e questa volta non opposi resistenza.
Ed e Hassan sollevarono quella che sembrava la versione ospedaliera di una bocchetta
antincendio e un fiotto d’acqua punteggiata da scintille azzurro cielo riempì la scatola
per le scarpe. Mamma tentò di tossire quando le entrò nel naso.
«Respiri normalmente» le gridò Ed sopra il rumore dell’acqua. «Si rilassi.»
Un ammasso di bollicine si sollevò nell’acqua azzurra, oscurandole il viso. Lei scosse la
testa, come per negare all’acqua la possibilità di affogarla, ma un istante dopo si arrese.
Il liquido la ricoprì. Ed chiuse la bocchetta e le onde svanirono. L’acqua era immobile.
Lei era immobile.
Ed e Hassan calarono il coperchio della bara su mamma. Poi spinsero la cassa verso la
parete di fondo e solo quando la chiusero dietro uno sportellino nella parete notai
tutti gli altri sportellini in quella stessa parete, come in un obitorio. Abbassarono la
maniglia. Uno sbuffo bianco sfuggì dal portello: il processo di congelamento rapido
era finito. Un secondo prima mamma era lì e un secondo dopo di lei non restava che
un involucro gelido e immobile. Sarebbe stata come morta per i prossimi trecento
anni, finché qualcuno non avesse aperto quello sportellino e l’avesse svegliata.
«Tocca alla ragazza ora?» chiese Ed.
Feci un passo avanti, stringendo le mani a pugno per non far vedere che tremavano.
«No» disse papà.
Ma, senza aspettare la sua risposta, Ed e Hassan stavano già preparando un’altra
scatola per le scarpe. Non gli importava a chi toccasse: stavano solo facendo il loro
lavoro.
«Come?» chiesi a papà.
«Sarò io il prossimo. Tua madre non sarebbe d’accordo... Temeva che ti saresti tirata
indietro all’ultimo momento, che avresti deciso di non venire con noi. Be’, io ti sto
dando questa possibilità. Ora andrò io. Poi, se deciderai di rinunciare, di non essere
ibernata, a me sta bene. L’ho detto ai tuoi zii. Ti stanno aspettando fuori: saranno lì
fino alle cinque. Dopo che mi avranno ibernato, potrai semplicemente andartene. Io e
mamma non lo sapremo per secoli, finché non ci sveglieranno, e, se tu deciderai di
vivere invece di farti ibernare, a noi non dispiacerà.»
«Ma papà, io...»
«No. Non è giusto che ti costringiamo a farlo facendo leva sul senso di colpa. Sarà più
facile per te prendere una decisione senza doverci guardare in faccia.»
«Ma te l’ho promesso. E l’ho promesso a mamma...» La voce mi si spezzò. Mi
bruciavano gli occhi e li strinsi per un istante. Due grosse lacrime mi colarono lungo
le guance.
«Non ha importanza. È una promessa troppo grossa, che non possiamo costringerti a
mantenere. Tu devi prendere questa decisione da sola... Se vuoi restare qui, lo capisco.
Ti sto dando una via d’uscita.»
«Ma tu non gli servi! Potresti restare qui con me! Non sei importante per la missione...
Sei un militare, porca miseria! A cosa potrebbe servire un analista militare su un
nuovo pianeta? Potresti restare qui, potresti stare...»
Papà scosse la testa.
«...con me» sussurrai, ma era inutile insistere. Aveva già deciso. E poi quello che avevo
detto non era vero. Papà era il sesto nella linea di comando e, anche se questo non
faceva esattamente di lui il comandante in capo, era comunque piuttosto in alto nella
scala gerarchica. Anche mamma era importante: nessuno era più bravo di lei nella
manipolazione genetica ed era indispensabile per creare piante in grado di crescere su
un nuovo pianeta.
Io ero l’unica che non serviva a niente.
Papà andò dietro la tenda per spogliarsi e, quando ne uscì, Ed e Hassan gli lasciarono
usare un asciugamano per coprirsi mentre andava verso la camera di ibernazione.
Glielo tolsero quando si sdraiò e io mi costrinsi a fissare il suo viso per non mettere in
imbarazzo entrambi. Ma il suo volto irradiava dolore, un’espressione che non gli avevo
mai visto prima. Lo stomaco mi si contorse in preda alla paura e al dubbio.
Guardai Ed e Hassan inserirgli le due endovenose. Li guardai sigillargli gli occhi.
Tentai di ritrarmi in me stessa, di mettere a tacere il grido di orrore che mi echeggiava
nella testa e di restare dritta, con la schiena trasformata in acciaio e il viso in pietra.
Poi papà mi strinse la mano, una volta sola, con forza, mentre gli ficcavano i tubi in
gola, e io crollai, dentro e fuori.
Prima che riempissero la sua cassa con il liquido screziato d’azzurro, papà sollevò la
mano con il mignolo teso. Io glielo strinsi con il mio. Sapevo che con quel gesto mi
stava promettendo che sarebbe andato tutto bene. E io quasi gli credetti.
Piansi così forte quando riempirono la sua camera d’ibernazione che non riuscii a
vedere il suo viso mentre veniva inondato dal liquido. Poi calarono il coperchio, lo
chiusero nella sua cella d’obitorio e uno sbuffo bianco sfuggì dalle fessure dello
sportelletto.
«Posso vederlo?» chiesi.
Ed e Hassan si scambiarono uno sguardo. Hassan si strinse nelle spalle. Ed tirò di
nuovo la leva dello sportello ed estrasse la bara trasparente.
E lì c’era papà. Il liquido semitrasparente si era solidificato col gelo e io sapevo che lo
stesso era accaduto a papà. Posai una mano sul vetro, sperando che ci fosse un modo
per sentire il suo calore attraverso tutto quel ghiaccio, ma dovetti ritrarla
immediatamente. Il vetro era così freddo che scottava. C’erano delle lucine verdi che
brillavano sulla piccola scatola elettrica che Hassan aveva fissato sopra il criotubo di
papà.
Non sembrava papà quello sotto il ghiaccio.
«Allora» disse Ed «hai deciso di farlo o vuoi lasciare la festa prima che cominci?» E
spinse nuovamente la bara di papà nel suo alloggiamento nella parete.
Quando alzai lo sguardo verso Ed i miei occhi erano così fradici di lacrime che il suo
viso mi sembrò liquefatto, con un occhio solo come quello di Ciclope. «Io...»
Il mio sguardo saettò verso l’uscita dall’altra parte della stanza, oltre tutti gli apparati
criogenici. Dietro quella porta c’erano i miei zii, a cui volevo molto bene e con i quali
sarei stata felice di vivere. E fuori c’era Jason. E Rebecca, Heather, Robyn e tutti i miei
amici. E le montagne, i fiori, il cielo. La Terra. Oltre quella porta c’era la Terra. E la
vita.
Ma i miei occhi tornarono a posarsi sugli sportelli nella parete. Dietro quei
rettangolini c’erano mamma e papà.
Piansi mentre mi spogliavo. Il primo ragazzo che mi aveva vista nuda era stato Jason, e
solo una volta, la sera in cui avevo scoperto che avrei abbandonato tutto, e quel tutto
includeva lui.
Non mi piaceva l’idea che le ultime persone a vedermi nuda su questo pianeta fossero
Ed e Hassan. Tentai di coprirmi con le braccia e le mani, ma i due tecnici me le fecero
spostare per poter infilare le endovenose.
E, oddio, era peggio di quello che mamma mi aveva fatto credere. Oh, Dio, Dio. Era
freddo e bruciava allo stesso tempo. Sentivo i muscoli che si tendevano mentre quella
robaccia azzurra entrava nel mio corpo. Il mio cuore voleva battere, martellare
all’impazzata contro la gabbia toracica come un amante che bussa alla porta, ma quella
roba azzurra lo costringeva a fare il contrario, a raaallleeentare... così invece di
batterebatterebattere, batteva... batteva...
...batteva...
...
...
...batteva...
...
Ed mi spalancò le palpebre. Plop! Il liquido giallo mi riempì gli occhi, sigillandoli
come fosse colla. Plop!
Ero cieca adesso.
Uno di loro, forse Hassan, mi diede un colpetto sul mento e io aprii la bocca,
obbediente. Ma non abbastanza: i tubi mi urtarono contro i denti. La aprii di più.
E poi mi spinsero i tubi in gola, con forza. Non erano tanto flessibili quanto
sembravano a prima vista: era come avere un manico di scopa oliato ficcato in bocca.
Ebbi un conato di vomito, e poi un altro ancora. Il sapore della bile e del sangue si
mescolò a quello di plastica dei tubi.
«Ingoia!» mi gridò Ed nell’orecchio. «Rilassati!»
Facile per lui dirlo.
Pochi istanti dopo aver ingoiato i tubi, sentii un formicolio nello stomaco. Sentii i fili
dentro di me che venivano tirati mentre Hassan fissava la piccola scatola nera fuori
dalla mia bara.
Un fruscio. Il bocchettone del liquido azzurro.
«Non capisco come una persona possa accettare di farsi fare una cosa del genere»
disse Hassan.
Silenzio.
Un suono metallico... il bocchettone che veniva aperto. Un liquido freddo, gelido, che
mi spruzzava le cosce. Volevo muovere le mani per coprirmi in quel punto, ma il mio
corpo era lento a rispondere.
«Bah, chissà...» disse Ed. «Le cose non sono esattamente tutte rose e fiori da queste
parti. Niente è più andato bene dopo la prima recessione, per non parlare poi di quello
che è successo dopo la seconda. La Borsa Risorse Finanziarie avrebbe dovuto creare
nuovi posti di lavoro, o almeno così avevano detto... Invece io non ho nient’altro a
parte questo lavoro di merda e anche questo finirà quando saranno tutti ibernati.»
Ancora silenzio. Il crioliquido ora mi stava bagnando le ginocchia e si insinuava
gelido nei posti del mio corpo che prima erano caldi... la piega del ginocchio, sotto le
braccia, sotto il seno.
«Non vale la pena rinunciare alla tua vita, almeno non per quello che offrono.»
Ed sbuffò. «E cosa offrono poi? Lo stipendio di una vita, tutto in una volta.»
«Ma non vale un fico secco su una nave che non atterrerà prima di trecentouno anni.»
Il mio cuore mancò un battito. Trecento e uno? No, è sbagliato. Sono trecento anni
esatti. Non trecento e uno.
«Tutto quel denaro di sicuro può aiutare una famiglia. Potrebbe fare la differenza.»
«Quale differenza?» chiese Hassan.
«La differenza tra sopravvivere e morire. Non è più come quando eravamo piccoli. Il
presidente può dire quello che gli pare, ma la sua Legge Finanziaria non ce la farà a
riappianare il debito pubblico che ci ritroviamo.»
Ma di cosa vanno blaterando? Chissenefrega del debito nazionale e dei posti di lavoro!
Tornate a quell’anno in più!
«Uno ha il tempo di pensarci, a ogni modo» continuò Ed. «Di considerare varie
possibilità. Perché hanno ritardato di nuovo il lancio?»
Il crioliquido mi schizzò contro le orecchie mentre la bara si riempiva: sollevai la
tesa. Ritardato? Come ritardato? Tentai di parlare, ma i tubi mi riempivano
completamente la bocca, mi premevano contro la lingua, soffocavano le mie parole.
«Non ne ho idea. Qualcosa riguardo al carburante e ai dati inviati dalle sonde. Ma
perché ci fanno congelare tutti ugualmente come da programma?»
Il crioliquido stava salendo rapidamente. Voltai la testa in modo che l’orecchio destro
potesse continuare a cogliere la loro conversazione.
«E a chi importa?» disse Ed. «Di certo non a loro: dormiranno per tutto il tempo.
Dicono che la nave impiegherà trecento anni solo per arrivare all’altro pianeta... Che
differenza fa un anno in più?»
Tentai di mettermi a sedere. Mi sentivo i muscoli duri, lenti, ma mi sforzai il più
possibile. Tentai di nuovo di parlare, di emettere un suono, un suono qualsiasi, ma il
crioliquido mi stava schizzando sul viso.
«Rilassati!» mi gridò Ed praticamente in faccia.
Scossi la testa. Dio, ma non se ne rendevano conto? Un anno faceva un sacco di
differenza! Era un anno in più da passare con Jason, un anno in più da vivere! Mi ero
impegnata per trecento anni... non per trecento anni e uno!
Mani gentili – quelle di Hassan? – mi spinsero sotto il crioliquido. Trattenni il fiato.
Tentai di nuovo di alzarmi. Volevo il mio anno! Il mio ultimo anno... un altro anno!
«Respira nel liquido!» La voce di Ed era soffocata, quasi incomprensibile attraverso il
crioliquido. Tentai di scuotere la testa, ma mentre i muscoli del mio collo si tendevano
i miei polmoni si ribellarono e il freddo, gelido liquido mi entrò a fiotti nel naso, dalla
bocca intorno ai tubi e nel corpo. Sentii l’irrevocabilità del coperchio che mi
intrappolava nella mia bara da Biancaneve.
Mentre uno di loro spingeva all’altezza dei miei piedi, facendomi scivolare nella mia
cella d’obitorio, immaginai che il Principe Azzurro fosse subito dietro il mio
sportellino, che sarebbe arrivato davvero e mi avrebbe svegliato con un bacio e
avremmo potuto stare insieme per un anno intero.
Ci fu un clic clic grr di ingranaggi e capii che il processo di ibernazione rapida sarebbe
cominciato dopo pochissimi secondi e a quel punto la mia vita non sarebbe stata altro
che uno sbuffo bianco che sfuggiva dalle fessure del mio sportello.
E pensai: Almeno dormirò. Dimenticherò qualunque altra cosa, per trecentouno anni.
E poi pensai: Sarà bello.
E poi whoosh! il getto del congelamento rapido riempì la minuscola camera. Ero nel
ghiaccio. Ero ghiaccio.
Sono ghiaccio.
Ma, se sono ghiaccio, com’è possibile che sia cosciente? Dovrei essere addormentata;
dovrei dimenticare Jason, la vita, la Terra, per trecento anni... e uno. Altri sono stati
ibernati prima di me e nessuno era cosciente. La mente è congelata: non può essere
sveglia e non può pensare.
Ho letto di persone in coma che avrebbero dovuto perdere conoscenza grazie
all’anestesia durante un’operazione, ma che in realtà erano sveglie e sentivano tutto.
Spero, prego, che non sia capitato anche a me. Non posso restare sveglia per
trecentouno anni. Non ce la farei mai a sopravvivere.
Magari ora sto sognando. Ho sognato un’intera vita in un pisolino di mezz’ora. Magari
sono ancora in quell’istante tra l’ibernato e il non, e questo è solo un sogno. Magari
non abbiamo ancora lasciato la Terra. Magari sono ancora in quell’anno di limbo
prima che la nave parta e sono intrappolata in un sogno da cui non riesco a
svegliarmi.
Magari ho ancora trecentouno anni davanti a me.
Magari non sono ancora addormentata. Non del tutto, almeno.
Magari, magari, magari...
So solo una cosa per certo.
Rivoglio indietro il mio anno.
Di questo romanzo adoro la copertina, la trovo bellissima. Speriamo che il libro sia altrettanto bello! Fatemi sapere se l'avete letto e se vi è piaciuto :D Io ho intenzione di leggerlo a breve, tanto per togliermi lo sfizio. è da mesi che il titolo occupa i mille post-it sparsi sulla mia scrivania.
Più tardi pubblicherò le trame di alcuni romanzi in uscita a breve, ma colgo l'occasione adesso per augurarvi una buona giornata. Ciao Ciao
Nessun commento:
Posta un commento