Buonasera amici,
Rieccomi per presentarvi una nuova anteprima. Si tratta di "I cento colori del blu" di Amy Harmon, edito da Newton Compton, in uscita il 3 Aprile 2014. è Un romanzo autoconclusivo, Bestseller del New York Times.
"I cento colori del blu"
Amy Harmon
Newton Compton
Pagine 384
In uscita il 3 Aprile 2014
La sua storia è un segreto
Solo l'amore potrà svelarlo
Tutti a scuola conoscono Blue Echohawk. Abbandonata da sua madre quando aveva solo due anni, Blue non sa se quello sia il suo vero nome né quando sia davvero il suo compleanno. Ma ha imparato a fuggire il dolore con atteggiamenti da ribelle: indossa sempre vestiti attillatissimi e un trucco pesante. E soprattutto il sesso è il suo rifugio, un gioco per dimenticare tutto, per mettere sotto chiave le sue emozioni. A scuola poi è un caso disperato. Eppure il suo nuovo insegnante di storia, il giovane Darcy Wilson, non la pensa così: Darcy crede in lei, e sa che Blue ha bisogno di capire chi sia prima di trovare un posto nel mondo. E così la sprona a guardarsi dentro e a ripercorrere il passato, a scrivere la sua storia, a dar voce alle sue emozioni. Tra i due nasce una grande amicizia, e forse, a poco a poco, qualcosa di più: un sentimento forte, travolgente, a cui ciascuno dei due tenta in tutti i modi di resistere…
Breve estratto
Agosto 1993

La bimba era sdraiata sul sedile posteriore, nel caldo
soffocante della macchina. Aveva il viso arrossato, la
coperta su cui era distesa si era spostata e il viso era premuto
sulla plastica del sedile. Ma lei non sembrava accorgersene
e continuava a dormire. Era forte, nonostante
fosse così piccola. Non piangeva quasi mai, né si lamentava.
Sua madre aveva tenuto i finestrini abbassati per tutto
il viaggio, ma non era servito a molto. Perlomeno adesso
il sole era tramontato e non batteva più. Era scesa la sera,
che aveva portato un po’ di sollievo, nonostante fuori ci
fossero ancora quasi quaranta gradi; e poi nell’oscurità
nessuno le avrebbe notate. L’aria condizionata aveva funzionato
finché l’auto era in movimento, ma da due ore
erano ferme nel buio a guardare il pick-up, aspettando
quell’uomo.
La donna al volante si mangiucchiò le unghie, chiedendosi
se non fosse il caso di lasciar perdere. Cosa gli avrebbe
detto? Tuttavia aveva bisogno d’aiuto. Il denaro che
aveva preso a sua madre non era durato molto. I genitori
di Ethan le avevano dato duemila dollari, ma tra benzina,
motel e cibo erano finiti prima di quanto si fosse aspettata.
Così, durante il viaggio si era ritrovata a fare cose di
cui non era per niente fiera, anche se continuava a dirsi
che non aveva avuto scelta. Ormai aveva una figlia: doveva
prendersi cura di lei, anche se questo significava fare
sesso in cambio di denaro o favori. O di droga, suggerì
una vocina nella sua testa. Scacciò quel pensiero. Sapeva
che non avrebbe resistito ancora a lungo, aveva bisogno
di un’altra dose.
Ecco a che punto era arrivata. Le sembrava impossibile
essere finita lì, a poca distanza da casa. Qualche ora di
viaggio, niente di più. Aveva attraversato metà Stato e poi
era tornata indietro senza aver risolto nulla.
All’improvviso vide l’uomo che tornava verso il pick-up.
Tirò fuori le chiavi da una tasca e cercò di aprire la portiera
del passeggero. Gli corse incontro un cane sporco,
grigio e nero, che era rimasto a dormire sotto il rimorchio,
aspettando il suo ritorno. Cominciò a girargli intorno alle
gambe mentre lui strattonava la maniglia. Lo sentì imprecare
sottovoce.
«Maledetta maniglia. Devo farla sostituire».
Alla fine riuscì ad aprire e il cane balzò subito sul sedile.
L’uomo richiuse e controllò di nuovo la maniglia. Non si
accorse che lei lo stava guardando. Fece il giro passando
davanti al pick-up, si mise al volante e uscì dal parcheggio
che aveva occupato per qualche ora. Mentre avanzava, per
un attimo posò lo sguardo su di lei, ma senza indugiare,
senza esitazioni. D’altra parte cosa ci si poteva aspettare?
Non la degnò neppure di una seconda occhiata. Niente
ripensamenti. Sentì la collera montarle dentro. Era stanca
di sembrare trasparente, di essere incrociata solo per caso,
ignorata, respinta.
Mise in moto e lo seguì, tenendosi a una distanza sufficiente
per non destare sospetti. Ma perché poi avrebbe do-
vuto insospettirsi? Non sapeva nemmeno che lei esisteva.
E questo la rendeva invisibile, giusto? Eppure era pronta
a seguirlo anche tutta la notte, se necessario.
* * *
5 agosto 1993
La chiamata arrivò poco prima delle quattro del pomeriggio,
e l’agente Moody non ne fu affatto contento. Era
quasi a fine turno, tuttavia rispose e raggiunse il parcheggio
dello Stowaway, un motel fatiscente che solo qualche
clandestino avrebbe scelto. Un’insegna al neon raffigurante
un baule di legno con una testa che sbucava dal coperchio
sfrigolava nella calura del pomeriggio. L’agente Moody
viveva a Reno da tutta una vita, cioè ventotto anni, e
sapeva benissimo che chi frequentava lo Stowaway non
lo faceva certo per la comodità dei letti. Sentì la sirena di
un’ambulanza: l’addetta alla reception doveva aver fatto
più di una telefonata. Era tutto il pomeriggio che aveva un
dolore gorgogliante al ventre. Maledetti burritos. A pranzo
se n’era spazzolati un paio stracolmi di formaggio, guacamole,
carne di maiale, panna acida e peperoncini verdi, e
adesso si stavano vendicando. Aveva un gran bisogno di
andare a casa. Sperava con tutto se stesso che la receptionist
si fosse sbagliata, così da poter sbrigare in fretta la faccenda
e chiudere lì la giornata.
Invece non si era sbagliata. Quella donna, un’ospite del
motel, era morta, senza dubbio. Era agosto, e doveva essere
rimasta chiusa nella stanza 246 per almeno quarantotto
ore. Il mese di agosto a Reno, in Nevada, era caldo e secco.
E il corpo puzzava. I burritos minacciarono di rifarsi vivi
e l’agente Moody, senza toccare nulla, uscì in tutta fretta
per avvisare i soccorritori che non c’era bisogno del loro
intervento. Il suo capo gli avrebbe staccato la testa, se li
avesse lasciati entrare lì dentro. Chiuse la porta della 246
e avvertì la ragazza all’ingresso che in breve sarebbero arrivati
un mucchio di poliziotti, e che avrebbero avuto bisogno
del suo aiuto. Poi chiamò il capo.
«Martinez? Abbiamo una donna, sicuramente morta. Ho
chiuso la scena del crimine e allontanato i paramedici. Servono
rinforzi».
Un’ora dopo, la scientifica stava scattando foto, mentre
la polizia setacciava la zona e faceva domande a tutti gli
ospiti, ai proprietari dei negozi dei dintorni, agli impiegati
del motel. Il detective Stan Martinez, il capo dell’agente
Moody, aveva fatto requisire la videocamera di sicurezza.
E, meraviglia delle meraviglie, allo Stowaway ne avevano
davvero una. Era stato chiamato il medico legale, che sarebbe
arrivato di lì a poco.
Quando fu interrogata, la receptionist dichiarò che la
stanza non era stata affittata perché aveva il condizionatore
rotto. Nessuno entrava o usciva da quella camera da più di
due giorni. Avevano chiamato un tecnico, ma la riparazione
non era certo una priorità. Nessuno sapeva come avesse
fatto quella donna a entrare nella stanza, ma di certo non si
era fatta registrare né aveva usato una carta di credito per
pagare il soggiorno. Inoltre non aveva documenti con sé.
Purtroppo – e questo avrebbe reso più difficili le indagini
− era morta da almeno due giorni, e quello non era un
albergo che inducesse la gente a fermarsi a lungo. Lo Stowaway
si trovava lungo l’autostrada appena fuori città, e
chiunque potesse aver visto o sentito qualcosa, la notte in
cui lei era morta, era già lontano.
Quando l’agente Moody riuscì a tornare a casa, quella sera
alle otto, non si sentiva certo meglio, e non erano ancora
riusciti a identificare la donna trovata morta, che aveva con
sé solo qualche effetto personale di poco conto. Aveva una
brutta sensazione, e non per colpa dei burritos.
* * *
6 agosto 1993
«Abbiamo scoperto l’identità della donna?». Moody non
era riuscito a togliersela dalla testa. Ci aveva pensato tutta
la notte. Non era un suo caso, gli agenti non si occupavano
delle indagini. Ma Martinez era il suo capo e sembrava
disposto a parlargliene, soprattutto perché la cosa pareva
destinata a chiudersi in fretta.
«Il medico legale le ha preso le impronte», gli rivelò Martinez.
«Ah, sì? Trovato qualcosa?»
«Sì. Ha qualche precedente, soprattutto per droga. Abbiamo
trovato un nome e un vecchio indirizzo. Diciannove
anni appena compiuti. Anzi, il 3 agosto era il suo compleanno
», aggiunse con una smorfia.
«Quindi è morta il giorno del suo compleanno?»
«Così dice il medico legale, sì».
«Overdose?». Moody non sapeva se avrebbe risposto a
quella domanda. Martinez non era tipo da dare troppi
dettagli.
«È quel che pensavamo all’inizio, ma quando l’hanno girata
per l’autopsia le hanno trovato il cranio fracassato».
«Ah, maledizione», gemette Moody. Adesso dovevano
anche dare la caccia a un assassino.
«Non sappiamo se sia stata la ferita alla testa o la droga a
ucciderla, ma di sicuro qualcuno ha cercato di farla fuori.
Sembra che abbia preso un po’ di tutto, dalla montagna di
roba che abbiamo trovato sulla scena del crimine. Doveva
essersi fatta tanta di quella merda da sballare un’intera
squadra di cheerleader», riferì Martinez.
«Cheerleader?», ridacchiò Moody.
«Già. Era una cheerleader in una piccola scuola nello
Utah meridionale. È sul rapporto della polizia. Aveva preso
ecstasy con qualche compagna, è stata beccata e incriminata
per possesso di stupefacenti. Non è finita in galera
solo perché era minorenne ed era il suo primo reato, e poi
non vendeva la droga, la divideva con le altre. Abbiamo
contattato le autorità locali, avviseranno loro la famiglia».
«Trovato qualcosa nei video di sorveglianza?»
«Sì, ma tutto liscio come l’olio. Si vede lei che entra verso
mezzanotte, supera il bancone all’ingresso e si intrufola
nell’ufficio. La receptionist dice che di solito chiude
tutto a chiave quando si allontana dalla scrivania, ma
quella sera un virus gastrointestinale l’aveva costretta a
correre al bagno». L’agente Moody ripensò alla propria
lotta con i burritos mentre Martinez continuava a raccontare.
«Il filmato mostra la ragazza che fruga nell’ufficio
e prende una chiave. Sai, usano ancora le chiavi vere,
allo Stowaway non ci sono le tessere magnetiche. Secondo
la receptionist, la chiave era stata messa da parte per
via dei problemi al condizionatore. C’era un modulo per
la richiesta di manutenzione insieme a quella chiave. La
ragazza non era una stupida. L’ha presa sapendo che poteva
stare in quella stanza senza essere notata. Ma non
finisce qui. Abbiamo anche la registrazione della sua auto
che arriva con lei e riparte un’ora dopo con un uomo
alla guida. Abbiamo diramato un avviso generale con la
descrizione della macchina».
«Ottimo. A quanto pare siete a una svolta», sospirò Moody,
sollevato.
«Esatto. Lo sbattiamo dentro presto», concordò il detective
Martinez.
* * *
7 agosto 1993
«Ok, adesso ascoltate bene». All’inizio della riunione del
mattino il detective Martinez alzò le braccia, per chiedere
silenzio. «Le autorità dello Utah meridionale ci hanno
appena informati che la donna trovata morta allo Stowaway
lo scorso venerdì 5 agosto aveva una figlia di due anni.
Trovate una descrizione e una foto della donna nel volantino
che avete davanti. Al momento non abbiamo modo
di sapere se la bambina era con lei nelle ore precedenti il
decesso, ma dal video della sorveglianza non sembra che
sia mai stata nel motel. La famiglia della donna non vedeva
lei né la bambina da più di un anno, quindi non sappiamo
quando si siano separate. Sono stati allertati i media. Abbiamo
informato anche gli altri posti di polizia e stiamo
inviando le informazioni all’unità anticrimine. Dobbiamo
ricominciare a distribuire i volantini in tutta la zona. Far
girare subito la foto della donna. Bisogna scoprire se qualcuno
ricorda di averla vista e se era con la bambina. Non
abbiamo foto della piccola, ma sua nonna ci ha dato una
descrizione sommaria. Ha capelli scuri e occhi azzurri, di
etnia nativo-americana, anche se il padre dovrebbe essere
di razza caucasica, e da lui avrebbe preso il colore degli oc-chi. La madre è morta ormai da cinque giorni, e sappiamo
bene che genere di viavai c’è allo Stowaway. Abbiamo perso
molto tempo prezioso e dobbiamo fare in fretta. Forza,
ragazzi, mettiamoci al lavoro».
Che ne pensate?
Vi incuriosisce?